L’isola di Gorée è un puntino nel mondo, grande appena 36 ettari. Si trova a 3 km a largo di Dakar ed è raggiungibile con appena venti minuti di traghetto, svoltato il lungo molo che racchiude il porto della capitale. Venti minuti intensi quanto un’eternità: respirando l’aria salmastra e spingendo lo sguardo in direzione dell’oceano si ha la sensazione di poter essere inghiottiti da un momento all’altro nell’infinità dell’universo. Poi, come per incanto, dalla leggera foschia del mattino presto appare lei, antichissima e dignitosa. Lunga 300 metri e larga un chilometro, Gorée è un tuffo nel periodo coloniale: non ha spiagge ma grandi caseggiati coloratissimi a picco sul mare, tra muri di pietra lavica, buganvillee fucsia e gialle, portoni pittoreschi e chioschetti di chincaglierie e panini.
L’ambiente è più salubre e ordinato rispetto al resto del Senegal, grazie agli abitanti – circa duemila in tutto – che rastrellano la sabbia in ogni piccolo viottolo. Anche il clima è meno pesante che nel resto del Paese, perché il mare mitiga e abbassa vertiginosamente le temperature equatoriali. Gli abitanti sono pescatori, commercianti o artisti: tra pittori, scultori e musicisti, l’isola è tempestata di tele dipinte con i colori più accesi che si possano immaginare, statue tradizionali in legno o futuristiche – realizzate con materiali di scarto e rifiuti – e una miriade di strumenti musicali: djembé, korà, n’goni, ecc.
Eppure questo paradiso terrestre ha un passato per niente glorioso, un luogo che in Europa trova somiglianza solo ad Auschwitz: l’isola di Gorée, patrimonio dell’umanità dell’UNESCO dal 1978, è stata per secoli uno degli avamposti della tratta degli schiavi. Gli uomini più forti, le donne più belle e i bambini più sani venivano portati qui da tutto il Senegal e stipati insieme nella “Maison des Esclaves“, la casa degli schiavi con stanze che erano vere e proprie gabbie di pietra, sigillate da spesse inferriate, con piccolissime porte e spesso senza finestre. Le si può guardare ancora oggi perché la Maison des Esclaves, che risale al Settecento, è diventato un museo nel 1962 raccogliendo, nel suo piccolo spazio, il peso di un luogo simbolo di questa tragedia secolare ed accogliendo circa 500 visitatori al giorno.
Al piano di sopra si possono osservare gli ottocenteschi dipinti francesi che raffigurano la tratta in modo lucido e impietoso, nonché i cimeli della schiavitù: catene, fucili, fruste. A passare tra i corridoi e nelle gabbie occorre incurvare la schiena e la coscienza. Il peso che si sente è quello dell’aria e dei ricordi, di cui le pareti delle gabbie sono impregnate: ce n’erano due per gli uomini, due per i “recalcitranti”, una per le donne, una per i bambini. E poi il piccolo cortile centrale, dove venivano fatte le trattative: gli europei davano un prezzo ad ogni schiavo a seconda dei muscoli per gli uomini, dei seni per le donne, dei denti per i bambini. I velieri aspettavano pazienti sul retro, per un lungo viaggio verso le Americhe: la “porta del non ritorno”, minuscola nella sua enormità simbolica che affaccia direttamente sul mare in direzione di Dakar, non risparmiava chi era sopravvissuto ai maltrattamenti e alle privazioni.
L’isola di Gorée quindi, a parte il suo mare e i suoi paesaggi mozzafiato, i suoi mercatini e le sue opere d’arte, è da vedere anche per fare un tuffo nella storia. È consigliabile passarci dai due ai cinque giorni, per godersi la calma soggiornando in uno dei graziosi alberghetti; ma per chi gira molto e ha poco tempo anche un giorno intero (prendendo il traghetto delle 7 da Dakar e ripartendo con quello delle 18) è sufficiente per visitarla tutta.
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